Il regno delle Api

Il Regno delle Api

Le Api hanno sempre avuto un posto particolare nella vita degli uomini.

Spesse volte, infatti, non hanno rappresentato solo motivo di sostentamento ma vero e proprio sistema di riferimento ed ammirazione: ora come esempio di laboriosità, ora come folla indaffarata, ora come esercito capace di difendere la propria città. Già Aristotele nutriva una vera predilezione per il microcosmo delle api: presenti nel mito della nascita di Zeus/ Giove, in quanto lo avevano nutrito con il miele. Le api erano ammirate perché fornivano una materia prima dolcificante (il miele) a una civiltà che ignorava lo zucchero. Alle api gli antichi guardavano inoltre come modello di società compatta e ordinata. Soprattutto da questa personalità collettiva delle api è attratto Virgilio, che nel libro IV delle Georgiche, oltre alle circostanze di clima, vegetazione, posizione ecc. adatte all’apicoltura, si sofferma a descrivere con minuzia di dettagli la res publica delle api. Già Cicerone aveva notato (De re publica I, 39) che nel mondo delle api la res publica diviene propriamente res populi, cioè una collettività in cui il popolo è tenuto insieme da uno scopo comune; Virgilio riprende questo motivo, disegnando una grandiosa metafora della società umana.

La rappresentazione del Regno delle Api diverrà anche in epoca unitaria vero e proprio modello di riferimento.

Il Brigante riprenderà ad esempio l’organizzazione comunitaria delle api, segnata dalla fedeltà alla casa, alla terra e alle sue leggi naturali, dalla conoscenza delle risorse e dalla dedizione del lavoro, dalla disponibilità al sacrificio in vista del bene comune, dall’assoluta devozione al capo.

Questa la la traduzione del brano più significativo relativo alle api:

Le api (Georgiche IV, 149 – 227)

Allora, qui descriverò le doti che Giove stesso attribuì alle api in premio per aver nutrito in una grotta del Ditte, attratte dai canti selvaggi e dallo strepito di bronzo dei Cureti, il re dei cielo.

Solo loro hanno in comune i figli, un’unica casa per tutte, e vivono seguendo leggi rigorose, solo loro riconoscono sempre la patria, il focolare, e sapendo che tornerà l’inverno in estate si sottopongono a fatica per riporre in comune ciò che si procurano.

Così alcune provvedono al cibo e secondo un accordo stabilito si affannano nei campi; una parte, nel chiuso delle case, pone come base dei favi lacrime di Narciso e glutine vischioso di corteccia, poi vi stende sopra cera tenace; altre accompagnano fuori i figli svezzati, speranza dello sciame; altre accumulano miele purissimo e colmano le celle di limpido nettare. Ad alcune è toccata in sorte la guardia delle porte e a turno osservano se in cielo le nubi minacciano pioggia, raccolgono il carico delle compagne in arrivo e, schierate a battaglia, cacciano dall’alveare il branco ozioso dei fuchi: ferve il lavoro e il miele fragrante odora di timo. Come fra i Ciclopi, quando con il metallo incandescente forgiano febbrilmente i fulmini, alcuni aspirano e soffiano l’aria con mantici di cuoio, altri fra stridori immergono nell’acqua la lega; sotto il peso delle incudini geme l’Etna; e quelli alternando lo sforzo sollevano a ritmo le braccia, voltano e rivoltano il ferro stretto fra le tenaglie; così, se è giusto confrontare il piccolo col grande, un’avidità istintiva di possedere spinge le api di Cècrope ognuna al suo compito.

Alle anziane sono affidati gli alveari, l’ossatura dei favi, la costruzione dell’arnia a regola d’arte; le più giovani invece tornano sfiancate a notte fonda con le zampe cariche di timo; prendono il cibo in ogni luogo, sui corbezzoli e i salici grigi, la cassia, il croco rossastro, il tiglio unto e i giacinti scuri. Per tutte uguale il turno di riposo, per tutte il turno di lavoro: la mattina sfrecciano fuori, e non c’è sosta; poi, quando la sera le induce a lasciare campi e pasture, solo allora tornano a casa e pensano a se stesse; in un brusio crescente ronzano intorno all’arnia davanti alle entrate.

Quando infine dentro le celle vanno a riposare, cala il silenzio della notte e un giusto sonno pervade le membra stanche. Se però incombe la pioggia, evitano di allontanarsi troppo dalle case, non si fidano del cielo se irrompe il vento, ma vanno per acqua vicino alla città protette dalle mura, tentano brevi sortite e a volte, come si zavorrano le barche in preda ai flutti, portano con sé granelli di sabbia per reggersi in volo tra le nubi leggere.

Un comportamento delle api ti stupirà: non si accoppiano fra loro, snervando nel piacere fino all’esaurimento il proprio corpo e non partoriscono i figli con dolore, ma dalle foglie, dalle erbe profumate raccolgono i piccoli con la bocca: sostituiscono così il re e la comunità dell’alveare, ricreando la corte e il reame di cera. Spesso nel loro continuo vagare si spezzano le ali contro lamine di roccia e così per lo zelo tendono l’anima sotto il fardello, tanto è l’amore che portano ai fiori e il vanto di produrre miele. Ma per quanto sia breve il limite che a loro destina la vita (non supera di norma i sette anni), la razza rimane immortale e a lungo negli anni si regge la fortuna di una famiglia: si può risalire agli avi degli avi. Ancora, nemmeno in Egitto, in Lidia, fra i Parti o sulle rive dell’Idaspe in Media è tanto venerato il re. Finché vive, una volontà concorde le accomuna, morto, rompono il patto di obbedienza e loro stesse saccheggiano il miele accumulato, sfasciano il graticcio dei favi. Lui regola il lavoro e le api, attorniandolo in ranghi serrati, con un ronzio incessante gli rendono onore, lo sollevano sulle spalle, gli fanno scudo del corpo in battaglia e cercano combattendo morte gloriosa.

In base a questi segni, a queste prove, qualcuno ritiene che nelle api vi sia parte della mente divina, un soffio d’infinito, perché la divinità penetra dovunque, nelle terre, negli spazi di mare, nelle profondità del cielo; da lei chiunque nasca, greggi, armenti, uomini, ogni specie di fiere, attinge la sua effimera vita; poi, dissolto, ogni essere ritorna e si rimette a lei: non esiste la morte, vivo vola nel novero degli astri assurgendo all’immensità del cielo.